domenica 28 agosto 2011

IL RISCHIO IDROGEOLOGICO IERI ED OGGI IN CALABRIA









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LA CALABRIA NELLA SECONDA META' DEL SETTECENTO
(di Armando Orlando)

            La carestia del 1764  interessò tutto il Regno e costituì un ostacolo all'incremento demografico delle province, poiché l'azione del governo fu protesa a fronteggiare la penuria di generi alimentari nella sola Napoli, onde evitare che nella città risorgesse lo spirito di Masaniello, sacrificando così le terre periferiche al bene della capitale.
            A Cosenza oro e argento venivano venduti per acquistare generi di prima necessità, ed ovunque i prezzi salivano vertiginosamente. Nelle campagne imperversavano i ladri di vettovaglie. Nei Casali della città bruzia gli abitanti rimasero senza pane e si nutrirono di erbe selvagge, e quando con la successiva annata agricola la situazione alimentare sembrò migliorare, un'epidemia di peste colpì le terre dei casali e si diffuse rapidamente nei paesi del Vallo, causando la morte di migliaia di persone. Umberto Caldora scrive che in quel periodo il popolo, per via della carestia, per fare il pane ricorse ai lupini, alle cicorie, al finocchio selvatico e ad altre erbe, e quegli espedienti rimasero in auge in ogni tempo, presso tutti coloro che non avrebbero potuto altrimenti sfamarsi. 
            In occasione della carestia il popolo affamato insorse in Amantea. Il sindaco fu rinchiuso nel castello, e solo gli interventi del governatore e del predicatore quaresimale riuscirono ad evitare il diffondersi della rivolta. Gli assalti ai magazzini ed ai forni si susseguirono con frequenza ed in molte zone della Calabria rifiorì il brigantaggio, con le bande di Pietro Capello di Malito e di Trincheo di Conflenti.  A Scigliano e Crotone i cittadini difesero con le armi le scorte di grano che i governanti avevano destinato altrove. A Cosenza i reclusi nel carcere furono lasciati morire per mancanza di pane. Ed il Tanucci, in un dispaccio dell'aprile del 1764, segnalò al Re di Spagna la presenza di tumulti a Nola, Taranto, Crotone e Rossano, aggiungendo che "ogni popolazione sta al passo per attrappare li grani che passino o per Napoli o per altri paesi del Regno".
            Responsabile della carestia - secondo Augusto Placanica - era anche il clima del tempo, ultima propaggine della little ice age, la cosiddetta piccola età glaciale moderna, subentrata a quell'optimum climatico medioevale che con il considerevole aumento dell'irradiazione solare aveva favorito la poderosa crescita delle terre italiane tra il 1000 ed il 1300. 
            Il fenomeno diede luogo allora a significative variazioni climatiche; le estati divennero più fredde e le temperature si allinearono alle medie autunnali; il freddo forte e le piogge violente fiaccarono la coltura del grano, che aveva bisogno di caldo per la maturazione. Il cereale raggiunse prezzi doppi e tripli rispetto alle quotazioni degli anni precedenti e folle di miserabili - scrive Placanica - spinti dalla fame ad emigrazioni faticose e inconcludenti, si disperdevano e s'incrociavano dappertutto, arrivando fin nella capitale, dov'erano inesorabilmente destinate a perire. Il pane scarseggiava e si affermarono l'orzo, l'avena, la segala e il granturco, produzioni a rendimento non elevato e con scarso potere nutritivo. Pane e pasta di grano entrarono solo nelle case dei ricchi e dei forestieri, mentre ai poveri era riservato il pane scuro, fatto con grani inferiori o misti o addirittura con segale, orzo, mais e persino con farina di castagne.
            Quella del 1763/64 - continua lo studioso di Catanzaro - fu la prima grande crisi di sussistenza che, per via delle incredibili dimensioni e della diffusione in ogni più remoto angolo del Regno, spingesse autorità e pubblicisti a pensare seriamente a riforme di struttura che accrescessero, e di molto, la produzione e la produttività dell'agricoltura meridionale. E Aurelio Lepre aggiunge che il 1764 diventò il punto di riferimento di tutte le polemiche, sia favorevoli alla liberalizzazione, sia contrarie. Tutte le disposizioni annonarie che furono date dopo quell'anno dovettero tenere conto della carestia e degli effetti che essa aveva avuto, accrescendo nelle masse popolari il timore della fame e rendendo più difficile, di conseguenza, l'adozione di riforme. Da quell'anno, inoltre, gli amministratori comunali furono costretti a fare ingenti approvvigionamenti di viveri, e ciò pesò fortemente sui bilanci, appesantendo le deboli finanze locali.
            Nel frattempo continuava in Calabria la lunga serie di eventi funesti e di catastrofi, e la regione veniva interessata da una lenta degradazione, favorita dalle caratteristiche orografiche del territorio.
            Nel 1767 un terremoto colpì molti paesi della Valle del Crati, a nord di Cosenza, arrecando gravi danni alle attività economiche, alla raccolta del grano e alla sericoltura. Nel 1782 i rioni della Cavallerizza e di Torre Vecchia a Nicastro furono spazzati dalla furia delle acque del torrente Piazza; l'alluvione provocò più di cento morti, i danni furono calcolati in un milione di ducati e gli abitanti del quartiere Cavallerizza furono costretti a trasferirsi altrove, dando origine al rione Bella.
            Nel 1783 si verificò il grande terremoto, al quale dedicheremo un intero capitolo di questa storia, e nel 1785 una pestilenza a carattere vaioloso portò ancora lutti e rovine in quelle terre già duramente provate dalla furia della natura. In quest'ultima occasione il medico Giuseppe Bruni riuscì a diffondere nella popolazione superstiziosa e ignorante la nuova pratica della vaccinazione, sicché nel 1787 l'infezione si poteva dire praticamente scomparsa. Nel 1790 un'epidemia colpì Monteleone; nell'ospedale furono ricoverati 1.200 infermi e la popolazione fu quasi dimezzata. L'anno dopo, il 13 ottobre 1791, una nuova scossa colpì la parte interna della Calabria centro meridionale, e nella notte tra il 28 ed il 29 ottobre un mare di pioggia cadde su quasi tutte le terre colpite dal terremoto, i fiumi si gonfiarono, strariparono e allagarono i campi e le case, causando cinquanta morti.
            Nel 1786 le inondazioni avevano toccato Soriano e Bagnara, e nel 1790 l'Ancinale aveva arrecato danni ai centri vicini. Nel 1793 un'altra grande alluvione si abbattè su Reggio e provocò sia la perdita di 400 vite umane che danni alle proprietà per due milioni di ducati. Due anni dopo le acque del Calopinace strariparono di nuovo e travolsero le abitazioni del rione San Filippo. 
            Intanto altre piccole carestie avevano colpito le terre della regione, ed un notaio nel 1798 scrisse che "tutti gli individui di Aiello e Casale delli Terrati tentarono di provedersi in altri luoghi, e specialmente nell'altra provincia di Calabria Ultra, ma essendovi ivi impedito il commercio per li grandi assassini che si commetterono sono stati costretti ad assaggiar la fame...si sono totalmente estenuati dalla fame, che sono arrivati a vivere, con far uso delli fiori delle fichi crude".
            In questo contesto i prezzi del grano continuarono a salire, ed i produttori spostarono le colture di cereali sempre più in alto, mentre i proprietari di animali andavano alla ricerca di nuovi pascoli. I Calabresi - scrive Giovanni Sole - lentamente, ma progressivamente, si allontanavano dal mare per attestarsi su zone impervie ma facilmente difendibili. Vennero allora messi in discussione gli usi civici praticati sulle terre demaniali e feudali, il seminativo si incuneò dappertutto, e dove non si seminava il grano si impiantavano gli alberi di ulivo.
            La trasformazione dei boschi in seminativi, scrive Giuseppe Brasacchio, fu il mezzo più comune per espandere la cerealicoltura e la pastorizia: più che la scure furono gli incendi - le "cesine" di antica memoria - a distruggere parte dei secolari boschi appenninici e la superstite macchia mediterranea del collepiano. Mentre per Emilio Sereni è la ricerca del profitto capitalistico che comincia a divenire il motore e il regolatore decisivo del ritmo dei dissodamenti.
            La Sila fu la prima montagna della Calabria a soffrire, perché, oltre a fornire spazi per il grano, doveva rispondere alla richiesta di legname, pece e resine per l'edilizia e per le costruzioni navali, mentre l'Aspromonte riuscì a conservare meglio le sue strutture economico-pastorali, limitandosi a rispondere ai fabbisogni del tempo solo con la produzione di olio. E dal momento che il 75% della popolazione calabrese viveva in centri dell'entroterra ubicati tra 250 e 750 metri di quota, la ricerca di nuove terre da disboscare e dissodare si manifestò tra i 400 metri di quota e la zona climatica del castagno: oltre i mille metri, spiega Brasacchio, le condizioni erano sfavorevoli per le colture, mentre le terre della marina non erano praticabili per la presenza della malaria che era padrona di un paesaggio desolante e spopolato.
            Per avere terre da coltivare e legna per riscaldarsi - citiamo ancora Sole - gli abitanti tagliavano boschi e foreste, pregiudicando gravemente la situazione idrogeologica. Le acque, senza essere convogliate negli antichi corsi, cominciarono ad allagare e impaludare il litorale e le spiagge. Terre prima popolate e coltivate si trasformarono via via in lande desolate in cui diventa padrona incontrastata la malaria...ed il mare, se prima era temuto e tenuto a distanza, ormai cominciava a sparire dalla cultura e dalla vista stessa della maggior parte dei calabresi. 
            Un male endemico, quello della malaria, che contribuiva a frenare il decollo demografico della Calabria e che interveniva a definire lo stato degli insediamenti umani, i tracciati stradali, la localizzazione delle attività economiche. L'uso della corteccia della china, una pianta introdotta per la prima volta in Europa nel 1640 dalla moglie del governatore del Perù, non aveva prodotto ancora un effetto determinante sulla cura delle febbri malariche, e già nel 1753 il vescovo di Isola lamentava l'abbandono della Diocesi e la desolazione delle sue terre, dove quasi tutti  i vescovi si ammalavano ed erano costretti a lasciare vacante la sede per molti anni.
            Quelle del Settecento furono scelte che ebbero effetti sinistri sull'equilibrio idrogeologico del territorio,  ricorda Brasacchio, ed i fenomeni regressivi si manifestarono prima con lentezza, e poi, quando l'azione dell'uomo si accentuava, essi crebbero di intensità. Il fenomeno del disfacimento del territorio non sfuggì agli studiosi del tempo, e nella relazione di Giuseppe Zurlo troviamo scritto che "le pendici aspre dei monti sono  dalla natura destinate a nutrire alberi, e non a soffrire lo squarciamento dell'aratro", mentre il cosentino Giuseppe Spiriti, acuto osservatore dell'economia regionale, denunciava che "si sono sboscati i monti per voglia di avere terre migliori da coltivare" ed ammoniva che "in pochi anni i monti deludono le mire dell'avarizia, han mostrato la loro nuda e sterile calvizia e i piani sottoposti sono stati messi in rovina da' torrenti, che hanno trascinato seco col terreno le arene e i sassi della montagna".
            La composizione della piattaforma geologica (graniti in montagna, argille e sabbie in basso nel collepiano), la configurazione orografica (con la dorsale appenninica che attraversava la regione in tutta la sua lunghezza, con quote che raggiungono i 2.000 metri, interposta tra i due mari a breve distanza), ed il
regime delle piogge (concentrate spesso in brevi e limitati periodi di tempo) furono i fenomeni che favorirono l'erosione del suolo e la degradazione del prato, ed il dissesto idrogeologico della Calabria, avviato nel Settecento, è ancora oggi sotto i nostri occhi.
            Ma la storia della Calabria è fatta assai più di permanenze che non di mutamenti: e se è vero che la storia economica e sociale si alimenta di trasformazioni indotte nel corpo della società, bisogna riconoscere che la Calabria ha subìto dei condizionamenti così grevi da parte delle strutture ambientali che il mutamento economico e sociale, dice Placanica, è stato così lento da apparire inesistente, almeno fino alle soglie dell'Ottocento ed oltre. E per mutamento economico e sociale si intende la lenta crescita delle classi umili, uscite fuori dalle secche dell'autoconsumo.
            Esemplare è la vicenda della seta, il cui ciclo produttivo si iniziava con la coltura del gelso e l'allevamento e trattamento del baco nelle campagne, e si concludeva nei telai cittadini.
            Nei primi anni del Settecento la Calabria aveva contribuito ancora in maniera notevole alla produzione totale del Regno, anche se la qualità, per il tipo di lavorazione "a mangano", risultava inferiore a quella del Piemonte, dove veniva praticata la lavorazione a telaio. Nella regione, però,  il governo di Napoli aveva sospeso nel 1751 i privilegi fiscali concessi all'industria di Catanzaro, e la produzione, diventata di scarsa qualità, era caduta sotto il controllo dei gabellieri e si era mostrata inadeguata a sostenere la concorrenza di altre regioni d'Italia, dove erano stati introdotti nuovi macchinari ed erano sorti veri e propri stabilimenti.
             Per migliorare la qualità si cercò di correre ai ripari tentando nuove sperimentazioni e favorendo lo scambio di maestri ed esperti; nel 1790 a Villa San Giovanni furono impiantate due filande ad aspo lungo. Non si ebbero, però, buoni risultati e qualche anno dopo la crisi dell'arte della seta divenne generale. La produzione di tessuti stranieri di qualità più corrente, con cotoni e lane provenienti dalle Americhe, si fece più intensa e l'economia concentrata della fabbrica ed i bassi costi della produzione industriale sostituirono la manifattura a domicilio, esercitata dalla maggioranza delle famiglie calabresi per secoli. In Italia solo Lombardia, Liguria e Toscana riuscirono a reggere le tensioni del mercato.
            E' in questo periodo, scrive Placanica, che le città maggiori di Calabria cominciano a perdere la connotazione semi-industriale che, grazie alla produzione di tessuti, finora hanno avuta: a cominciare da Catanzaro, da sempre capitale della seta, a Cosenza, fino a Reggio, dove almeno resiste la produzione delle essenze agrumarie, oggetto di esportazione. Inevitabilmente, intorno ad ogni città, le campagne cominciano ad assistere al declino delle colture a gelso, dell'allevamento del baco e dell'allestimento della materia prima da destinare alla città. L'alternativa è rappresentata dall'impianto massiccio di alberi di olivi al posto dei gelsi, non solo per soddisfare una più accentuata richiesta alimentare, ma per incrementare la produzione di quel lubrificante da fornire alle macchine inglesi e di quella materia grassa richiesta dai saponifici francesi. Gran parte dell'olio calabrese, infatti, risultando di bassa qualità, veniva acquistato dai mercanti come materia prima per il famoso sapone di Marsiglia, che in Francia era ancora prodotto secondo le antiche regole dettate da Luigi XIV nel l688.
            La crisi della seta, divenuta ormai irreversibile, assieme ad una maggiore richiesta di olio e di farina, furono avvenimenti che determinarono l'abbandono della coltura del gelso; al suo posto, come abbiamo visto, venne piantato l'ulivo e, nello stesso tempo, venne dato l'assalto al bosco. E, secondo alcuni studiosi, furono proprio i disboscamenti, effettuati dai contadini per ricavare il necessario alla sussitenza, a far uscire il Regno di Napoli dalla crisi che lo aveva colpito dal 1759 al 1766 e a far conoscere una nuova fase di ripresa demografica e produttiva. Lo sviluppo fu notevole e durò fino al 1780, per poi arrivare ad una nuova crisi, quella degli anni Novanta, complicata dal dissesto finanziario del bilancio dello Stato e dalla minaccia degli eserciti rivoluzionari francesi.
            Il fenomeno dell'aumento della superficie coltivabile - scrive Silvio De Majo, continuò nel corso dei decenni successivi, reso indispensabile dal costante incremento demografico dopo la crisi del 1764, ma la produzione di grano non era affatto sufficiente e  nelle campagne i contadini dovevano fare sempre più ricorso alla produzione di cereali alternativi più facilmente coltivabili, come il mais.
            Alla fine dei cicli altalenanti di sviluppo e di regresso la popolazione del Regno era passata da tre milioni di abitanti nel 1734 a quattro nel 1771 ed a cinque nel 1793. Dopo Napoli, le città più popolate erano Bari, L'Aquila e Reggio Calabria.          Uguale sviluppo si ebbe nel campo della produzione agraria e negli scambi, ed anche il reddito fondiario, negli ultimi cinquant'anni del secolo, raddoppiò. Alcune produzioni divennero pure pregiate: come la pece di San Giovanni in Fiore, dove erano attive quattro fornaci che fornivano il Regio Arsenale di Napoli; come le essenze nel reggino, la liquerizia ai confini settentrionali con la Lucania, il cuoio a Tropea e le distillerie tra Gioia Tauro e Briatico; come i fucili ed i cannoni per l'esercito prodotti nel cuore dell'Appennino calabrese e spediti dalla marina di Pizzo; come il vino di Cirò, prodotto sui terreni disboscati verso la marina e venduto nella Fiera istituita con Real Diploma del 1785, nella quale operavano i mercanti di Scilla, i droghieri di Bagnara, gli orefici di Cosenza, i mercanti di panno di Positano.
            Pece e liquerizia meritano qualche parola in più. Per la pece, scrive Placanica, la Sila, posta a pochi chilometri dai casali cosentini, era fortissima fornitrice della materia prima, l'albero del pino. La pianta trovava uno dei suoi principali destini nella cantieristica navale e nell'industria edilizia della capitale, ed i mercanti importavano a ritmo incessante tronchi e tavole dalla foresta bruzia. Lo sfruttamento del pino laricio per la produzione delle essenze interessava, invece, le popolazioni di tutto l'agglomerato presilano della Calabria settentrionale, dai casali di Cosenza a San Giovanni in Fiore, da Taverna nel Catanzarese a Carlopoli nel Nicastrese. La lavorazione cominciava ad ottobre e gruppi di lavoratori procedevano all'incisione o allo scavo nel tronco della pianta; a primavera l'oleoresina cominciava a trasudare nella cavità e da liquida diventava spessa e densa; la resina veniva così prelevata, riscaldata in caldaie e distillata. La raccolta durava tutta l'estate ed i prodotti della lavorazione erano l'acquaragia e la pece bianca, usati per vernici, mastici, adesivi, lubrificanti ed in farmacia. La pece nera, detta anche pece navale, si ricavava dal legno resinoso in schegge di pino e dopo tre anni di scavo lo stesso albero, non più utilizzabile, veniva abbattuto o abbandonato.
            La coltivazione della liquerizia, un arbusto alto oltre un metro, era invece diffusa intorno alla vasta piana di Sibari, nelle zone del litorale ionico della Calabria settentrionale e nel basso versante ionico delle Serre e dell'Aspromonte. Un sistema di stabilimenti provvedeva alla lavorazione della radice che, dopo l'estrazione, veniva macinata e polverizzata, oppure ammollata e fatta macerare in acqua bollente fino ad ottenere un impasto denso e rigido. La pianta nasceva in zone scarsamente popolate o addirittura soggette a fenomeni di impaludamento, in terreni acquitrinosi e freddi, prossimi al mare, e verso la metà di ottobre schiere fitte di lavoratori, ricorda ancora Placanica, scendevano dalle pendici della presila e dai casali di Cosenza verso le marine ioniche della Calabria per andare a lavorare come coglitori e cavatori della radice, ed il ciclo si concludeva con la fase dell'impasto e della confezione del prodotto, affidata alle donne.
            Ma il commercio ed i traffici di questi prodotti erano costantemente disturbati dalle incursioni dei corsari, ed anche se con l'avvento di Carlo III  le operazioni sulla costa si erano diradate, la pirateria sui mari perdurava, e la presenza dei corsari fu segnalata di continuo sulla rotta tra Scilla e Castella, ed anche al largo di Punta Stilo. Il trattato del 1740 con la Turchia aveva fallito l'obiettivo di mettere fine alle azioni dei Barbareschi, le Reggenze continuavano a minacciare i traffici marittimi e per sorvegliare i mari furono utilizzate le navi da guerra.
            In quel periodo la marina napoletana era interessata da una fase di grande evoluzione, grazie anche all'opera del ministro Acton, e nelle intenzioni della regina Maria Carolina la flotta del Regno, composta da 39 navi che portavano 962 cannoni, doveva arrivare ad eguagliare gli splendori legati alle tradizioni normanne, sveve ed angioine, favorendo l'espansione del Mezzogiorno d'Italia verso il Levante.
            Ma verso la fine del Settecento la pirateria aveva ripreso a imperversare pure sui litorali e sui mari della Calabria, e la marina borbonica fu impegnata a fronteggiare le navi corsare e a scoraggiare le imprese dei pirati. Tutti gli stati europei erano riusciti ad ottenere il rispetto delle loro coste e delle loro navi da parte dei corsari, grazie all'uso della forza o alla stipula di trattati . Ma Napoli, dopo Venezia, era stata l'ultima a firmare accordi di pace con le reggenze barbaresche, e negli anni a cavallo tra la fine del secolo e l'inizio dell'Ottocento più della metà delle navi catturate dagli algerini battevano bandiera napoletana, e la maggior parte degli schiavi era di origini siciliane, calabresi, pugliesi e campane.
            La rinascita della corsa barbaresca, con i carichi delle navi catturati e venduti e la massa degli schiavi concentrati in terra maghrebina in attesa del riscatto al miglior prezzo, dopo aver toccato l'apice nell'ultimo decennio del Settecento, si arrestò quasi completamente nel 1806 in virtù del trattato del 1799 tra Napoli e Tunisi, e dopo gli accordi del 1812  i battelli dei corsari cominciarono a commercializzare pacificamente le loro merci anche nei porti dell'Italia meridionale.




OGGI:


Rischi: idrogeologico

Il rischio idrogeologico in Calabria

La quasi totalità del territorio calabrese è interessata da fenomeni di dissesto idrogeologico. Il territorio calabrese è infatti un territorio con forti dislivelli (in vari punti della Regione si passa in pochi chilometri dal mare alla montagna) e geologicamente "giovane", per cui la conformazione del territorio è spesso soggetta a modifiche naturali. La vulnerabilità del territorio calabrese al rischio idrogeologico è storicamente nota, a tal proposito è utile ricordare la definizione del Giustino Fortunato che già nel secolo scorso definì la Calabria "uno sfasciume pendulo sul mare". Numerosi sono gli eventi di dissesto idrogeologico verificatisi in Calabria che hanno provocato numerose vittime e danni molto elevati alla già debole economia regionale. Basta ricordare a tal proposito le disastrose alluvioni del 1951, del 1972-73, ma anche i recenti fenomeni alluvionali che hanno interessato Crotone nel 1996 e Soverato nel 2000. Negli ultimi decenni, il progressivo abbandono dei territori montani, la progressiva urbanizzazione di aree un tempo disabitate (frutto spesso di uno sviluppo urbanistico dissennato e dell'abusivismo) che ha interessato spesso aree in prossimità dei corsi d'acqua o di zone in frana, ha aumentato notevolmente l'esposizione del territorio al rischio idrogeologico. In questo senso emblematica appare la tragica alluvione di Soverato del 12 settembre 2000, causata dalla presenza di un campeggio in prossimità del torrente Beltrame.

Il continuo verificarsi di questi episodi ha aumentato la sensibilità verso il problema e sta producendo un cambio di rotta culturale: non ci si deve limitare più solamente sulla riparazione dei danni ed all'erogazione di sostegni economici alle popolazioni colpite , ma occorre creare cultura di previsione e prevenzione, diffusa a vari livelli, imperniata sull'individuazione delle condizioni di rischio ed all'adozione di interventi finalizzati alla minimizzazione dell'impatto degli eventi. A seguito dell'emanazione della
legge n. 267 del 3 agosto 1998 (legge Sarno), quasi tutte le regioni italiane hanno perimetrato le aree a rischio idrogeologico elevato o molto elevato. In Calabria l'Autorità di Bacino Regionale ha pubblicato nel 2001 il PAI, Piano di Assetto Idrogeologico Regionale che ha posto vincoli alla realizzazione di opere nelle aree a rischio elevato o molto elevato di alluvione o di frana.

Parallelamente è stato notevolmente potenziato il sistema di allertamento per preannunciare possibili fenomeni di dissesto idrogeologico e porre in atto tutte le iniziative necessarie a mettere in sicurezza la popolazione durante il verificarsi di eventi calamitosi. Il
Dipartimento Nazionale di Protezione Civile ha costituito la rete dei Centri Funzionali, che, ai sensi della Direttiva del Presidente del Consiglio del 27.02.2004, gestisce il sistema di allertamento sistema di allertamento nazionale e regionale per il rischio idrogeologico ed idraulico ai fini di protezione civile.

Lo stato della rete dei Centri Funzionali è diverso nelle varie Regioni italiane. Nella Regione Calabria, il Centro Funzionale, istituito fin dal settembre 2000 con l'
ordinanza di protezione civile n. 3081 del 12/09/2000 è stato recentemente trasferito al Settore Regionale di Protezione Civile (con deliberazione della giunta regionale n. 974 del 22.11.2005) ed ha avviato le procedure per ottenere la dichiarazione di operatività ai sensi della Direttiva PCM 27.02.2004. Nel frattempo in ottemperanza a quanto previsto dalla suddetta Direttiva PCM 27.02.2004 il sistema di allertamento viene gestito sulla base degli avvisi meteo e degli avvisi di criticità emessi dal Centro Funzionale Centrale del Dipartimento Nazionale di Protezione Civile che vengono adottati e trasmessi ai comuni ed agli altri enti competenti dalla Sala Operativa Regionale di Protezione Civile.

TIRO A SEGNO NAZIONALE - SEZIONE DI PALMI

giovedì 25 agosto 2011

L'EX SINDACO DI PALMI RISPONDE.......




Il prefetto di Reggio Calabria Varratta ha disposto la sospensione del Consiglio comunale di Palmi e la contestuale nomina come commissario prefettizio di Antonia Bellomo, viceprefetto. Il provvedimento arriva dopo l'approvazione da parte dello stesso Consiglio di una mozione di sfiducia nei confronti del sindaco Ennio Gaudio.






L'EX SINDACO DI PALMI RISPONDE...........





- Dopo la mozione di sfiducia al sindaco Gaudio -
PALMI - Pdl in frantumi dopo la sfiducia al sindaco Ennio Gaudio. Gigi Fedele interviene per difendere l'ex primo cittadino, attaccando i pidiellini che hanno votato la mozione. Gli strali del capogruppo regionale si abbattono in particolare sul vicecoordinatore provinciale dei berlusconiani, Ernesto Reggio, che da ex vicesindaco e punto di riferimento di Scopelliti a Palmi aveva guidato la fronda.  «Reputo gravissimo – ha scritto Fedele in una nota - che questo stato di cose si sia verificato proprio nella città in cui opera il vicecoordinatore provinciale del Pdl che, essendo stato nominato anche vicesindaco di Palmi (certamente non per il consenso elettorale) e che, per questo, avrebbe dovuto svolgere una funzione da mediatore, abbia costituito, alla fine dei giochi, l’elemento di rottura che ha provocato il declino dell’amministrazione Gaudio: purtroppo alcuni ruoli non si possono ricoprire quando non si possiede il giusto carisma». Parole forti, critiche inequivocabili anche sul piano dei rapporti di forza interni al partito, perché mettono in dubbio le qualità politiche di una figura di vertice come Reggio. Ma anche pesanti bordate all'indirizzo di un gruppo consiliare compatto, composto da 5 rappresentanti del Pdl che sono stati uniti dall'inizio alla fine della crisi durata un anno, fino alla mozione di sfiducia approvata nella riunione di lunedì scorso del civico consesso. Fedele, rinnovando la stima nei confronti dell'ex sindaco, definisce «da irresponsabile l'aver sfiduciato il primo cittadino», che quattro anni fa si era candidato da indipendente alla guida di una coalizione di centrodestra, dopo aver concluso una lunga e brillante carriera negli alti ranghi della polizia di Stato, nelle cui fila era stato questore.

Agostino Pantano

giovedì 18 agosto 2011

calabria torrenti e fiumi inquinati


"Le cattive notizie per il sistema marino-costiero della Calabria jonica viaggiano lungo fiumi e corsi d'acqua minori, arrivando alle foci da cui si riversano a mare. Tutti e 8 i punti campionati, infatti, sono risultati gravemente contaminati da inquinamento microbiologico". E' questo l'allarme lanciato da Goletta Verde - la campagna di Legambiente dedicata al monitoraggio e all'informazione sullo stato di salute delle coste e delle acque italiane, realizzata anche grazie al contributo di Consorzio Ecogas e Novamont. Focalizzate sui punti critici, le analisi dei biologici di Goletta Verde hanno evidenziato con campionamenti puntuali una situazione di forte sofferenza presso le foci dei fiumi, con grave rischio anche per le zone limitrofe. Prese di mira le foci dei fiumi Alli, Esaro, Fiumarella e Neto, nonche' quelle dei torrenti Coriglianeto, Trionto, Arango (a valle dello scarico del depuratore segnalato fuori servizio), e la Fiumara che attraversa il territorio del comune di Sella Marina.
"Le analisi di Goletta Verde sono un forte grido d'allarme: mettono in evidenza una situazione di gravissimo deterioramento dei fiumi e dei corsi d'acqua minori, e quindi del mare calabrese - ha commentato Nunzio Cirino Groccia, segreteria nazionale Legambiente - proprio nell'anno in cui e' entrata in vigore la nuova normativa sulla balneabilita', con limiti assai piu' permissivi rispetto alla precedente Dpr 470/1982. E' del tutto evidente come la grave contaminazione microbiologica dei fiumi calabresi sia legata a doppio filo con reti fognarie e servizi depurativi deficitari".


GOLETTA VERDE