Una visione d’insieme del territorio calabrese mette in evidenza l’importanza che ha il rilievo nella geografia della regione, dove le pianure e le aree sub-pianeggianti e collinari rappresentano solo una ridotta percentuale della superficie totale.
Degradando verso i due mari, disegnando coste piuttosto frastagliate, arcuate da golfi e irte di capi, l’Appennino Calabrese, staccandosi da quello Lucano, si erge sull’acrocoro della Sila, si prolunga nella Catena delle Serre e, quindi, si alza di nuovo davanti allo Stretto di Messina, nel massiccio dell’Aspromonte.
Ultimo balzo dell’Appennino Lucano, imponente sul confine con la Basilicata è la Catena del Pollino, che culmina nella Serra del Dolcedorme (m 2271), nel monte Pollino (m 2248), nella Serra del Prete (m 2186).
Dai suoi fianchi scendono numerosi corsi d’acqua, dei quali il più importante è il fiume Cosciale, che, bagnata la conca di Castrovillari, esce dalla piana di Sibari e va ad affluire nel fiume Crati.
Tra il massiccio del Pollino e il mar Tirreno si erge il gruppo dei monti di Lungo, Verbicaro e Orsomarso, detti anche di Montea. Cime che raggiungono i 2000 metri, un susseguirsi di alture, di vallate, di selve e di torrenti incontaminati, che fanno di questo posto uno degli angoli più belli dell’Italia meridionale.
Nei monti di Orsomarso, dove si può ammirare il lembo di foresta più suggestivo e vergine dell’Appennino, su terreni calcari triassici dolomitici, poco conosciuti dai turisti, vegetano, accanto ai faggi, il pino nero e il pino loricato.
Non mancano vasti piani carsici a pascolo e lembi di bosco in cui vegeta qualche raro esemplare di abete bianco e, nella valle dell’Abatemarco, un paesaggio inconsueto: creste rocciose ricoperte di selve, con alberelli di faggio, piegati a bandiera dai venti che soffiano in direzioni costanti. Anche la fauna reperibile su questo monte è degna di attenzione sia per la ricchezza e l’eterogeneità che per la rarità degli esemplari.
Un fenomeno che incuriosisce molto in questo massiccio è quello della Pietra Campanara: un pinnacolo alto decine di metri, creato dall’erosione della roccia calcarea, con il vertice ricoperto di macchia mediterranea.
Uno spettacolo incantevole offre il versante tirrenico, in prossimità del fiume Lao, dove la montagna presenta pareti, dirupi e valloni di colore rosa, che al tramonto del sole creano mille riflessi.
Alla dorsale sud-occidentale del monte Pollino, con direttrice nord/nord-ovest e sud/sud-est, si allaccia la Catena Costiera che si spinge fino al golfo di S. Eufemia con valli boscose e profonde che si aprono sul litorale tirrenico, adornato dalle uniche isolette della Calabria: isola di Dino e isola di Cirella.
La Catena Costiera, nel suo tratto terminale, si biforca in due rami: uno si arresta a nord della foce del fiume Savuto, l’altro, con un’ampia deviazione dell’orientamento originario va a costituire la catena di monte Repentino e monte Portella che domina la depressione tra Sant’Eufemia e Catanzaro. Il monte più alto della Catena Costiera è il Cocuzzo (m 1541).
Tra il corso meridionale del fiume Savuto e la piana di Sant’Eufemia, vi è il monte Mancuso (m 1328), non molto conosciuto ma sicuramente interessante per gli aspetti di grande valore naturalistico.
E’ qui possibile ammirare enormi esemplari di pino domestico dalla caratteristica forma a ombrello che dominano i campi coltivati e, subito dopo i campi coltivati, l’immensa foresta, boschi estesi di roverelle, castagni, ontani napoletani, carpini, aceri e faggi, alberi di agrifoglio. Presso i torrenti che attraversano il monte, un affascinante spettacolo di felci, muschi ed epatiche.
Risalendo dal monte Mancuso verso Cosenza c’è il gruppo montuoso più bello della regione e uno dei più affascinanti d’Italia: la Sila. Esso è formato dal grandioso massiccio granitico che dal cuore della Calabria avanza come una tozza penisola tra il golfo di Taranto e il golfo di Squillace. Paesaggio pacato e solenne, terra dei grandi laghi e di pinete interminabili, la Sila, contornata da fianchi dirupati, si presenta con una serie di altipiani sui mille metri di altitudine, ondulati da rilievi le cui cime maggiori sono quelle del Botte Donato (m 1929), del Montenero (m 1881) e del Gariglioso (m 1765).
Il suolo, originato dalla disgregazione di graniti, dioriti, micascisti e porfidi, offre un ambiente naturale diverso dal consueto appenninico a cui si aggiungono il clima oceanico, in contrasto con quello caldo della vicina costa e la ricchezza delle acque.
Meraviglia della Sila sono le maestose foreste di pini e di faggi che rivestono gli altipiani, che le fanno meritare il nome di “gran bosco d’Italia”. Lo stesso nome della Sila deriva dal latino “Silva Brutia”, che ricorda la sterminata selva dei Bruzi, passata poi ai Romani, che la sfruttarono per costruirvi navigli e basiliche. Ancora oggi gli alberi di queste selve, vicine al mare e ai fiumi, recisi al piede, sono trasportati ai porti vicini, e da qui al resto dell’Italia, per la costruzione di navi e case.
Quelli che invece crescono lontani dal mare e dai fiumi, fatti in pezzi, vengono utilizzati per costruire remi, aste per attrezzi militari, vasi domestici; dalla parte degli alberi più resinosa viene, invece, ricavata la pece.
La storia della Sila comincia nel periodo romano, quando migliaia di ettari di bosco furono destinati a pascolo. Successivamente, al tempo delle incursioni saracene, vennero creati i primi centri abitati, i “casali”. Durante la dominazione normanna, dal 1200 al 1300, sorse nella valle del Neto il convento di San Giovanni in Fiore e la Sila, che era un territorio demaniale, fu divisa in due zone: la Sila Regia della corona e la Sila Badiale del monastero.
Tale situazione fu confermata da un editto di Roberto D’Angiò che stabilì i confini tra le due zone. Tuttavia, la lontananza dei luoghi, l’impraticabilità degli stessi, la mancanza di strade portarono la Sila a diventare regno di briganti e preda di usurpatori che privatizzarono alcune zone, in continuo contrasto con gli abitanti di Cosenza e dei casali, dando luogo a secoli di distruzioni e incendi dolosi.
Con la caduta dei Borboni, le popolazioni locali, prive di ogni scrupolo, incendiarono grandi estensioni di bosco per ridurle a pascolo e a colture estensive. Non meno deleterio fu l’intervento dello Stato che divise il demanio tra i comuni silani, mantenendo solo quelle zone destinate alle costruzioni navali.
Solo nei decenni successivi si è dato avvio ad una campagna di riacquisto che ha portato alla ricostruzione di un demanio di 33000 ettari, alcuni dei quali appartengono attualmente alla Regione. Nonostante le speranze riposte nella realizzazione del Parco Nazionale della Calabria, la più bella foresta del Mezzogiorno ha perso molto del suo splendore a causa degli insediamenti residenziali, degli impianti turistici e della costruzione di strade che non hanno avuto riguardo alcuno dell’ambiente.
L’acrocoro silano comprende: la Sila grande, al centro; la Sila greca a nord; la Sila piccola a sud, in territorio catanzarese.
La Sila grande è la più ricca di flora e di fauna, la più suggestiva, ma anche quella dove l’uomo ha lasciato tracce più marcate del suo passaggio. Qui, accanto alla flora tipica, si possono ammirare molte piante introdotte artificialmente: larici, abeti rossi, betulle, castagni e pini silvestri. Il sottobosco non è molto ricco, presenta solo pochi arbusti; in compenso, l’ombra delle immense conifere favorisce la diffusione dei funghi commestibili e non.
Solo quando la pineta degrada, affiora un sottobosco ricco di felci aquiline. Molto ricca e interessante è anche la fauna che va dagli animali tipici della montagna, alle varie specie di volatili, ai pesci dei fiumi e dei laghi silani.
La Sila piccola, fino a poco tempo fa era la zona più selvaggia e poco frequentata, ma, oggi, molte strade hanno facilitato l’accesso all’uomo ed ha perso molto del suo aspetto originario. Per secoli è stata celebrata la foresta del Gariglione, che deve il nome al cerro (in calabrese gariglio), come una foresta vergine, incontaminata, unica in Europa che accoglieva pini e abeti barbuti e colossi vegetali di straordinarie dimensioni. Oggi quei colossi sono stati abbattuti per degradare l’ambiente e preparare l’erosione del terreno, per cui gli unici superstiti sono i faggi, gli abeti bianchi, gli ontani, i pioppi e il pino laricio. La scure dell’uomo non ha risparmiato neppure il bosco di Armento Mazzaforte, ridotto ora ad una fustaia artificiale.
L’aver tolto alla foresta le sue caratteristiche naturali ha avuto come conseguenza anche l’impoverimento della fauna originaria che non ha più trovato angoli in cui rifugiarsi per sfuggire all’uomo devastatore.
La Sila greca, così chiamata perché nel Medioevo vi si stabilirono moltissimi Albanesi, è la più aspra e brulla delle tre Sile. Brani letterari testimoniano comunque un passato unico per la ricchezza della flora e della fauna.
Esemplari sopravvissuti sono oggi il lupo, il cinghiale, lo sparviero, l’aquila reale e perfino il rarissimo avvoltoio degli agnelli, proveniente dalla penisola balcanica.
La flora, invece, degna di interesse, è possibile reperirla nelle vicinanze del monte Paleparto, soprattutto nella pineta di Gallopane, nella zona del Cupone o nel bosco Lamparo, ricco di enormi rovere, rifugio di ghiri e gatti selvatici.
Prosegue l’Appennino Calabrese con la Catena delle Serre, gruppo di belle montagne granitiche e ricoperte di fitta vegetazione, che prendono il nome di Gran Serra, Serra San Bruno e Serra di Vibo Valentia e collegano la Sila all’Aspromonte, culminando nel monte Pecoraro (m. 1420) e nel monte Crocco (m1268). Si tratta di due catene che procedono parallele, separate dalla valle dell’Ancinale. Il fiume Mesina le divide dal tavolato del Porro, alto 500 metri, proteso nel Tirreno con un caratteristico sperone che culmina nel Capo Vaticano, una delle località più suggestive del Mezzogiorno.
Nonostante i profondi cambiamenti, il paesaggio delle Serre è un quadro stupendo di pascoli e boschi e vastissime foreste, soprattutto quelle concentrate intorno a Serra San Bruno, sulle pendici del monte Pecoraro, o le celebri selve di Mongiana, Stilo e Ferdinandea.
Dall’alto delle Serre balza evidente la differenza tra il litorale ionico e quello tirrenico. Il primo, che dopo Punta Stilo procede fino al Capo Spartivento, è fiancheggiato da aride colline di marna, scavate da fiumare, visibili dalla strada tra Locri e Cittanova. Solo qualche cittadina, fra cui Locri, memore dell’antico e glorioso centro della Magna Grecia, anima la solitudine della marina.
Il litorale tirrenico, la celebre Costa Viola, è il tratto di costa più bello e famoso: lungo di essa si susseguono baie luminose, orlate di spiagge, scogliere fantastiche, strapiombi di roccia che si immergono nelle acque dalle trasparenze talora viola e talora smeraldo.
Raggiungendo le Serre dai giardini e dagli agrumeti di Vibo Valentia o da Stilo, che corrispondono ai versanti tirrenico e ionico del massiccio, si ha un susseguirsi di ambienti continui e variati: grandi estensioni di oliveti, ai quali fanno seguito, più in alto, campi intercalati a boschi di castagni, e poi dolci pendii di abetine oppure strette forre rocciose verdeggianti di lecci.
L’ultimo balzo della catena Appenninica è il massiccio dell’Aspromonte, un acrocoro che dalla sua vetta più elevata, il Montalto (m 1959) si espande a raggiera.
Tutto intorno una serie di colline a terrazze degrada verso i due mari dando luogo a paesaggi diversi sui due versanti: quello tirrenico degrada in una serie di ampie gradinate, detti piani ad alta quota e campi a bassa quota ed offre uno spettacolo di rocce granitiche, scisti micacei e quarzosi, filladi; quello ionico presenta formazioni terziarie, arenarie grossolane e conglomerati, sovrapposte ai micascisti.
Due importanti strade congiungono i due mari incontrandosi nella splendida conca di Gambarie, a 1300 metri di altitudine, dove i turisti affluiscono sia in estate per godere il fresco di dolcissime praterie e deliziose faggete, sia in inverno per sciare lungo i declivi del Montalto, animato da alberghetti, sciovie e seggiovie.
Ma accanto a questo Aspromonte incantevole e sereno, c’è un altro Aspromonte che mostra aspetti sconvolti, desolati o addirittura selvaggi, che ha conservato lo stesso volto di quando, millenni or sono, emerse dalle acque in seguito a grandiosi sconvolgimenti tellurici.
E’ l’Aspromonte dei picchi scoscesi e quasi inaccessibili su cui sorgono numerosi paesini che, visti da lontano, solitari e quasi confusi con la roccia, sembrano sospesi tra cielo e terra.
E’ l’Aspromonte delle fiumare che solcano con profonde gole, i ripidi gradini fra un ripiano e l’altro, scendendo a raggiera dai fianchi della montagna. Solo poche di queste fiumare sono ricoperte di splendida vegetazione. La maggior parte presenta greti biancheggianti aridi e sassosi e si gonfiano in inverno di acque impetuose che, precipitando con fragore spesso arrecano distruzione e rovina.
E’ l’Aspromonte su cui l’uomo da secoli deve sostenere una durissima lotta contro una natura avversa e a volte crudele.
E non solo l’uomo, anche la vegetazione, pur ricca e varia, a causa dell’aridità del clima, ha dovuto assumere speciali adattamenti xerofili, come è avvenuto per il castagno, il faggio e l’abete bianco.
Tuttavia sono presenti tutte le specie della flora tipica delle montagne appenniniche meridionali, dalle colture di agrumi, viti e olivi della costa, ai fitti boschi delle quote più elevate.