Micaela Coletti (nelle foto al centro: all’epoca della tragedia e oggi all’Aquila come volontaria dopo il terremoto) da cinquant’anni dorme 4-5 ore a notte. Oggi s’accontenterebbe di «non sentire più questo bisogno di rimanere sempre fuori, pronta a scappare...». Renato Migotti parla con pacatezza, prova a guardare ai ragazzi e al futuro ma poi quando chiude il discorso china il capo con spietato realismo: «Il paese vivrà meglio quando tutti noi saremo spariti».
Noi, i superstiti del Vajont. Anzi, i sopravvissuti e i superstiti. Un comitato, quello di Micaela Coletti, e un’associazione, guidata da Renato Migotti. Divisi. Ognuno ha i propri riti. E nessuno qui a Longarone — il paese che dopo l’onda spaventosa non c’era più — saprebbe spiegare il perché. Nemmeno Carolina Teza, una donna che non si arrende, anima dei «cittadini per la memoria», un altro gruppo ancora. Quello delle notti bianche su alla diga, racconti sulla strage degli innocenti, domenica c’erano anche i No Tav, così la Digos ha fatto la scorta al falò. Il sindaco Roberto Padrin, presidente della fondazione Vajont, sospira: «Condividere un percorso di memoria? Mi piacerebbe...».
Migotti è architetto e si considera un miracolato. Quella sera volò via con il suo letto, «il materasso mi ha salvato la vita». Guarda avanti. «Abbiamo appena cambiato nome alla nostra associazione, puntiamo sul ‘‘futuro della memoria’’. Penso ai ragazzi, vorrei coinvolgerli, loro non c’erano. Gli altri? Chi vive qui partecipa poco alle cerimonie. Tanta gente se ne frega. Abbiamo stampato i manifesti per la giornata del superstite, domenica. Uno dei nostri è entrato in un negozio, ha chiesto posso attaccarlo? Gli hanno risposto, sì, ma poi non chiedetemi altro...».
MIGOTTI guarda avanti. Questo paese un tempo era famoso perché esportava maestri gelatai nel mondo. Anche Cencio si è salvato perché era in Germania a fare quel mestiere. Il presente sono le fabbriche. Ci lavorano 4mila persone. Occhiali e mobili, insegne a spezzare l’incanto dei monti che non regge più e l’occhio che cade sempre lì, sulla gola del Vajont, la diga bella da togliere il fiato. E il futuro qual è?IL TOC violentato dalla diga venne giù alle 22,39 di quel 9 ottobre 1963 e in quattro minuti si portò via 1.910 persone. Ecco, la contabilità dei morti. Per tanti anni non era certa nemmeno quella, poi hanno voluto mettere un punto fermo, «abbiamo ricostruito la composizione delle famiglie — cerca un approdo Migotti —. Mancano solo i bimbi mai nati. Ci avete mai pensato, a loro?». C’è anche un altro conto. Suicidi, alcolismo, crepacuore.
Carolina Teza in casa tiene una cartellina con il suo Vajont. Anzi, con il Vajont di Cencio, come tutti chiamano Vincenzo, il marito, decine di morti in famiglia. Lui alle nove di sera è già a letto, tanto non dormirà niente. Ha smesso di raccontare. Non parla più, ha detto tutto sul fango di Longarone, quando tornò dalla Germania e non c’era più nessuno, morti mamma e papà, quattro fratelli, una nonna, tutti i parenti. Una famiglia liquidata dallo Stato con poco più di 6 milioni, i genitori un milione e mezzo ciascuno, i bimbi 800mila lire, la nonna nulla.
Micaela prima di rispondere deve guardarsi indietro, tornare al fango che l’aveva seppellita e pareva morta, invece trovò la forza di spingere fuori un braccio e i soccorritori quando la videro dissero, «qui c’è un’altra vecchia», ma lei aveva solo 12 anni. «Io vorrei che lo Stato ci considerasse finalmente vittime. Abbiamo ancora bisogno di un aiuto psicologico, questo vorrei dire al presidente Grasso. La gente deve potersi curare. Mi chiede se è tardi, dopo cinquant’anni? No, non è mai tardi per vivere in modo decente».
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